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Io e il Capo

PREFAZIONE di Michele Menna (Dirigente Area Personale TA Organizzazione e Sviluppo Alma Mater Studiorum Università di Bologna)

L’articolato lavoro di Francesco Muzzarelli affronta il tema della collaborazione argomentandola in maniera plurale, molteplice, relazionale e richiamando chi collabora alle proprie responsabilità, con le proprie paure e speranze, le differenti motivazioni e aspettative di crescita, di sicurezza e di sviluppo.

Il management della collaborazione a cui l’autore fa riferimento fornisce originali e utili spunti per i tanti addetti ai lavori e appare sempre più un management del percorso, piuttosto che un management della meta. Muzzarelli, attraverso un linguaggio chiaro, non prescrittivo, non prende posizioni a favore di particolari categorie, di capi o di collaboratori, di leader o follower, o di specifiche variabili che sono, di volta in volta, le cause di una cattiva o mancata collaborazione.
Il focus resta sempre quello della collaborazione, vista come interazione tra parti e come processo regolatore di tante attività organizzative.
Il leader stesso, senza il follower, è difficile da comprendere nelle attribuzioni positive che spesso gli vengono associate. Sovente, egli viene concepito come una persona che stabilisce una direzione per il gruppo, delinea delle prospettive, ispira una visione condivisa della realtà, facilita la costruzione di una rete di rapporti tra persone e gruppi, orienta verso progetti non illusori, ottiene il coinvolgimento degli altri, infonde fiducia, fornisce modelli, motiva le persone per ottenere scopi collettivi.
Guido Sarchielli, a tal proposito, evidenzia che fare un ragionamento sul leader chiama direttamente in causa i collaboratori, le loro attese, le loro modalità di interazione. «Non sarebbe comprensibile la scelta di un certo stile di comportamento se non si prendesse atto di questa interazione complessa, unitamente alle risorse situazionali e alle caratteristiche del compito che il gruppo deve affrontare. In questo senso, si potrebbe affermare che per avere nuovi insight sulla leadership occorre studiare meglio la followership.»

L’etimologia ci ricorda che“collaborare”deriva dal latino e significa“lavorare insieme”. I modelli collaborativi, d’altro canto, appaiono essere i più appropriati e risolutivi rispetto al mutare delle condizioni ambientali e all’aumento di complessità, poiché dal lavoro svolto insieme scaturiscono adattamento, creatività, innovazione e risposte che risultano più complete in quanto con- temperano più razionalità (economica, giuridica, politica, ecc.).
Lavorare insieme agli altri, dentro un’organizzazione, significa agire all’in- terno di un sistema interdipendente di ruoli, ovvero un insieme di diritti e di doveri, di obbligazioni e di privilegi. L’armonia che nasce dal saper collaborare richiede che chi ricopre e agisce interpretando un ruolo debba rispondere ad attese coerenti da parte di tutti coloro che svolgono ruoli collegati al suo.
Con tali presupposti, possono essere accettati anche i conflitti fisiologici con il proprio capo o con un collega d’ufficio o di altro settore interno. Agire al di fuori di un sistema di ruoli può invece compromettere l’agire professionale. Il rischio connesso è quello di alimentare la propria esperienza lavorativa cercando la collaborazione attraverso una dimensione affettiva, “fusionale”, sostitutiva di quella professionale e capace di generare pericolose mescolanze di alibi, invidie, pettegolezzi, interessi individuali, imprevedibilità, sfiducia e irresponsabilità.
Nel libro, Muzzarelli evidenzia in modo convincente che agire in collaborazione significa innanzitutto capire e capirsi apportando ogni giorno un valore aggiunto, processuale, al lavoro svolto. Questo appare un presupposto necessario sia per un leader sia per un follower. In altri termini, la concordia può nascere a seguito della ricomposizione di discordie, della trattazione dei dissensi e della riduzione dei pregiudizi. Per ricomporre le distanze bisogna alimentare una cultura della comprensione dei fenomeni in cui l’approccio diagnostico si distingua da quello ideologico, del giusto o sbagliato.
Come ha sostenuto Edgar Morin, prima di parlare di un’etica dei comporta- menti bisogna parlare di un’etica della comprensione che responsabilizzi chi deve prendere delle decisioni e avere maggiore consapevolezza e più conoscenza del contesto entro cui è chiamato ad agire.
Chi sa collaborare sa stare in relazione, comprende e apprende all’interno di dimensioni reticolari, di trame, contestualizza e relativizza i propri saperi, si apre al dubbio, impara a lavorare facendo e interagendo.
Così i gruppi, così le organizzazioni che sanno guardare e aprirsi al mondo e rendono inimitabile l’unica risorsa che resta davvero inimitabile: la persona con la sua biografia e con le sue competenze. Le tecnologie non risultano più un fattore discriminante per dare vantaggio competitivo e successo a un’azienda.
La tecnologia, con gradi e tempi diversi, è imitabile. Le persone che sanno collaborare, no.

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